sabato 12 novembre 2016

Cinque brani per violoncello che vi faranno innamorare di questo strumento

Ecco cinque brani per violoncello che fanno innamorare di questo strumento: vota il tuo preferito e poi leggi l'articolo per scoprire tutti i dettagli

 
Se in una ballata, una canzone, si sente il sottofondo di una voce profonda, armoniosa, vicina e calda ma che porta in sé l’antico suono di un arco primitivo, quella è la voce del violoncello. Lo strumento viene infatti impiegato in generi musicali sempre più numerosi, sfruttando la sua capacità di amalgamare la melodia e, con la sua sola presenza, di arricchirne il timbro di una sfumatura di nostalgia, di romanticismo, malinconia o rabbia, o anche allegria.

Uno strumento dal timbro particolare

La sua versatilità lo ha reso un’incombente presenza non solo nella musica classica, ma nel pop, nel R&B, nel country o nel rock, sia nella sua versione acustica, sia elettrica. Il timbro così affine alla voce umana ha conquistato innumerevoli compositori che gli hanno dedicato opere in cui figura solista. Grandi artisti al suo studio consacrarono l’intera vita.

Cos’hanno, dunque, di così affascinante quelle quattro corde sfregate da un archetto di crini? Spesso è sufficiente ascoltare un solo brano, per comprenderlo. Noi qui ne abbiamo selezionati cinque, che dovrebbero bastare a farvi innamorare della sua voce.


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Johann Sebastian Bach – Suite n.1 per violoncello

Una musica senza tempo, ma riscoperta di recente

Si parte dal più grande brano per violoncello mai scritto, composto circa due secoli fa da Johann Sebastian Bach, la Suite n.1 in Sol Maggiore. «Il bello della musica di Bach è che non ha tempo» e lo si può notare subito, dalla prima nota, un Sol, che apre le danze. Perché di una danza si tratta: l’archetto sulle corde si muove agilmente, sferza l’aria sotto l’onda del suono. Il primo movimento, un preludio, poi l’allemanda, corrente, sarabanda, minuetto e la giga.

Il violoncello, strumento melodico, da sempre costretto ad una sola melodia, pare ampliarsi in una polifonia di voci, tanto che chi non conosce il pezzo potrebbe pensare sia più di uno strumento a suonare. Orecchiabile e trasportante, a sentirla la suite richiama qualcosa di familiare, quasi ci fosse sempre stata, nella nostra testa, una musica così.

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Sono state però scoperte, le suite di Bach, solo recentemente. Venivano utilizzate dai violoncellisti come complicati esercizi di tecnica. Poi, in un fortuito pomeriggio a Barcellona, un ragazzino, che sarebbe diventato uno dei più grandi innovatori del Novecento, di nome Pablo Casals, trovò lo spartito in una raccolta di beneficenza. Ne rimase colpito e non lo eseguì in pubblico fino al 1925, all’età di 48 anni, quando fu pronto per una registrazione. Grazie ad essa, le suite crebbero di popolarità e divennero di dominio pubblico.

Un complesso virtuosismo

Le studiò per dodici anni e ancora non si sentiva sicuro. Quella stessa musica che accompagna spesso i film come colonna sonora, grazie a quella particolare atmosfera che solo il violoncello sa creare, è un pezzo di enorme virtuosismo che richiese dodici anni di studio persino ad uno dei più grandi.

Ve ne sono innumerevoli versioni, ognuna caratterizzata da una particolare cadenza, sfumatura, grazie alla grande libertà interpretativa che Bach lascia. Qui proponiamo quella del violoncellista israeliano Mischa Maisky.

 

Franz Schubert – Arpeggione (Sonata in La minore D821 per violoncello e pianoforte)

Una voce che racconta

Il secondo è un brano di Franz Schubert in cui il violoncello s’incontra con un altro strumento molto amato, il pianoforte. È una voce, quella del violoncello, cavernosa, che narra. Si potrebbe immaginare sia quella di Ulisse mentre parla della sua storia ai Feaci: narra di una mancanza, un bisogno, narra di un paese lontano, gente lontana. L’accompagnamento lieve del pianoforte potrebbero essere le mani con cui egli gesticola, per farsi capire meglio, come a dirigere l’orchestra del suo vissuto.

Parte con le mani, vuole accertarsi che tutti lo vedano, anche chi è seduto in fondo. Quasi timidamente le muove, lui, il grande Ulisse esperto nell’arte oratoria. Si fa piccolo, quando è della sua Itaca che deve parlare. Poi entra la voce, limpida e scura si posa su ogni cosa, è sicura, potente, la voce, nessuno deve protendere l’orecchio per udirla. Ma il suo canto è triste, cela un dolore straziante: c’era, vent’anni fa, un’isola, una terra, la mia terra, Itaca, non so se c’è ancora.


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Brulla e poco coltivabile, ma bella; e qui la voce si perde nei ricordi, assume un tono lieto, a tratti allegro, quasi fosse lì veramente, quasi Ulisse si fosse dimenticato dei Feaci e vagasse felice per la sua Itaca. I campi, le greggi. Con le dita traccia il profilo del promontorio, i pendii dove da bambino rincorreva gli animali selvatici. Il mare, accogliente, dove si gioca e si scherza, senza nessun dio che odi a morte nessun mortale, gli amici, la vita agricola. La voce si affievolisce, poi, da lontana e sognante s’impregna di amarezza e, in un soffio, si spegne.

La malinconia del ricordo

Un ricordo affiora, doloroso: Penelope. Un’ombra colora il canto di nostalgia e si ritorna al tema iniziale, malinconico, greve. Vent’anni che non la vedo, mia moglie. La sua immagine, nella mente, lentamente sfuma. Potrebbe crollare e scoppiare in lacrime, Ulisse, ma si riprende, riprende il suo racconto.

Le navi, i compagni, una guerra, la più grande di tutte, combattuta a Troia; la sua voce, agile, accurata, riassume tutto il dolore taciuto in pure frasi melodiche. Si accompagna con le mani, modula la dinamica, i piani e i forti, affinché gli ascoltatori rimangano interessati. Era un grande oratore, dopotutto.

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Però non può farci nulla e, di nuovo, il tono si scurisce al ricordo di Telemaco. Il tema ritorna, quello iniziale, ma con una variazione, non è più così incombente, definitivo, ha in sé una leggerezza, quella di un padre che ricorda il proprio figlio neonato, e non osa immaginarlo cresciuto, ormai adulto. Per poco quella sua malinconia si rasserena al pensiero che possa anche assomigliargli, ora, Telemaco.

Ci si può vedere quello che si vuole, nell’arpeggione di Schubert: Ulisse, Cirano, persino se stessi. La seguente è la versione del noto violoncellista Mstislav Rostropovič.

 

Auguste Franchomme – Notturno per violoncello e pianoforte op.14 no.1

La notte romantica

È ora il turno, per proseguire nella scoperta di una voce a cui naturalmente ci sentiamo attratti per la sua affinità con la nostra, di un brano meno conosciuto dei primi due, un notturno del compositore e violoncellista francese Auguste Joseph Franchomme.

Il notturno è una composizione musicale ideata da Chopin, emblematica di quel periodo che fu così generosamente stimolante per gli artisti che è il romanticismo. Trasmettendo le ovattate sensazioni di una notte sognante, il timbro plumbeo e lievemente nostalgico del violoncello si rivela un ottimo tramite attraverso cui comunicare l’essenza del romanticismo stesso.

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Ed è così che il calore del violoncello trasporta in quella stanza all’interno di sé in cui si è avvolti da un leggero tepore malinconico. Ci si lascia trasportare dal flusso incostante di pensieri, incuranti della direzione, di dove si andrà a finire. Tanto non importa, nel notturno, dove si va, conta solo perdersi nelle profondità di una notte che rischia di inghiottire, in quel suo perenne cullare.

Notte accogliente; eppure, ci avverte Franchomme, ingannatrice. Un tema ossessivamente riprodotto suggerisce un ciclo privo di sviluppi, inebriante, ma che risulta, al fine, sterile. Qui il brano è interpretato da Sol Gabetta e Bertrand Chamayou.

 

Dmitrij Šostakovič – Concerto per violoncello n.1 op.107 (allegretto)

L’arrivo dell’inquietudine

Fa da imponente contrappunto all’opera precedente il concerto n.1 per violoncello dell’ultimo compositore “classico” del Novecento, Dmitrij Šostakovič.

Qui non c’è più un canto cullante, la lieve malinconia di chi in fondo nel suo stesso dolore ha trovato piacere. Ora, nel primo movimento, l’allegretto, c’è inquietudine. È follia, un perenne girovagare e ingrovigliarsi in se stessi, perdere il senno, la coscienza, il contatto con il reale. È tutto questo, il primo movimento. È la trasposizione in note del delirio, è il violoncello che con prepotenza si sforza di irrompere fuori da una gabbia in un susseguirsi di strazianti note acute.

Il tema iniziale, l’incipit, secco e tagliente, viene sottoposto a spericolate mutazioni a cui gli ostinati impulsi ritmici danno la forma di una marcia grottesca ora pacata, ora imperiosa. Il compositore russo scrisse il concerto in quaranta giorni dedicandolo al violoncellista Mstislav Rostropovič. Proponiamo dunque una sua esibizione.

 

Zoltán Kodály – Sonata per violoncello solo op.8 (allegro molto vivace)

Una “scordatura” che sfrutta elementi tradizionali

Le sonate per violoncello del compositore ungherese Zoltán Kodály sono state definite come le più importanti mai scritte dai tempi di Bach. Non si poteva quindi non chiudere la cinquina con questa simmetria: si ritorna a Bach, alla voce limpida del violoncello che si staglia in piena solitudine.

Kodály fa uso della “scordatura”, che implica le corde di Do e Sol abbassate di un semitono e rende così la sonata uno dei brani più complessi per un violoncellista dal punto di vista pratico. Si compone di tre movimenti: l’allegro maestoso ma appassionato, l’adagio con gran espressione e l’allegro molto vivace. Prenderemo in esame il terzo, l’allegro molto vivace.

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Nell’ultimo movimento della sonata diviene evidente il continuo accostare di Kodály di stili classici e motivi tradizionali ungheresi. La trama, i temi sono intessuti di danze folcloristiche. Canzoni tradizionali per bambini stanno alla base della struttura, in una combinazione di svariati ritmi che fanno del violoncello uno strumento a percussione, sotto i colpi di un archetto che sa in quali punti esatti fare tremare le corde (dello strumento e dell’ascoltatore).

Una giostra mirabolante

L’estensione a cinque ottave, i virtuosismi, le scale, i crescendo, un ritmo di marcia eccitata e contagiosa rendono il movimento estremamente ricco e trasportante. Pare di essere su una giostra che gira mirabolante e se l’impressione è che si sia fermata è solo perché le propagazioni infinite del suo suono sono troppo flebili per essere udite. Fingono una pausa mentre silenziose proseguono il loro canto e in uno scoppio si riaccendono di nuovo vigore.

Il movimento potrebbe continuare all’infinito, con i suoi scherzi e le riprese a velocità diverse, imprevedibili come destrieri imbizzarriti che il compositore non vuole domare. Poi però, con un Do placido, vibrante dopo vorticosi arpeggi, la giostra smette di girare, i destrieri domati, tutto finisce. Ci si aspetta una ripresa a sorpresa di quelle che ormai si conoscono bene, ma non arriva. Qui la registrazione è del violoncellista Yo-Yo Ma.

 

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Il post Cinque brani per violoncello che vi faranno innamorare di questo strumento è apparso su Cinque cose belle.



Fonte: https://www.cinquecosebelle.it/cinque-brani-per-violoncello-che-vi-faranno-innamorare-di-questo-strumento/

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