martedì 24 gennaio 2017

Cinque belle canzoni sulla libertà

 
“Libertà” è una di quelle parole magiche, che vogliono dire tutto e il contrario di tutto. Cos’è la libertà? La libertà d’agire, cioè la possibilità di poter fare tutto quello che si vuole? Ma esiste davvero, una libertà del genere? Siamo, in questo senso, davvero liberi, quantomeno da noi stessi e dalla nostra natura?

Oppure la libertà è semplicemente il non dover sottostare a un potere superiore, il dover rendere conto esclusivamente a noi stessi? E se fosse realmente così, sarebbe una cosa preferibile alla dipendenza, ai limiti che ci impongono gli altri? La libertà può renderci felici o ci complica in fondo la vita?

Una domanda che si sono posti filosofi e musicisti

Sono tutte domande che i filosofi, a ben guardare, si pongono da secoli, anzi da millenni. Nessuno è riuscito a trovare una parola definitiva sull’argomento, e se non ci sono riusciti i filosofi, immaginatevi quanto ci possano essere riusciti gli scrittori, i poeti o, in tempi più recenti, i musicisti: di libertà ci sembra sempre di averne poca, ma chissà se siamo in grado di assumercene veramente la responsabilità.

Il tema, d’altronde, appassiona un po’ tutti. E i cantautori americani ed europei l’hanno trattato diffusamente. I primi canti che hanno affrontato l’argomento sono stati probabilmente i gospel, soprattutto perché venivano eseguiti da schiavi o comunque gruppi etnici sottomessi e discriminati. Poi sono arrivati gli anni ’60, la contestazione e le aspirazioni libertarie, a volte realizzate e a volte tradite. E ancora oggi, anche se in tono minore, la libertà continua a comparire nei testi delle canzoni.


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Quali sono però i brani più belli e significativi sull’argomento? Noi abbiamo cercato di spaziare in una sfera che va dal country al pop, alternando brani americani a pezzi italiani, canzoni più profonde ad altre un po’ più leggere ma comunque molto significative. Eccone cinque che vi permetteranno di scoprire altrettanti modi diversi di intendere la libertà.

 

The Band – I Shall Be Released (1968)

Il brano di Bob Dylan sul carcere (e non solo)

Il singolo della Band con The Weight e I Shall Be ReleasedSe di libertà dobbiamo parlare, non si può che partire da Bob Dylan. Il recente premio Nobel per la letteratura è stato infatti uno dei primi a portare l’argomento all’attenzione del grande pubblico americano e mondiale, riprendendolo dalla tradizione folk e gospel. Nella sua ampia produzione, il brano che ci pare più significativo però è un pezzo che lo stesso Dylan in principio affidò a un gruppo di cui non faceva parte, i The Band di Robbie Robertson. Quel brano era I Shall Be Released.

Dylan lo scrisse nel 1967, incidendolo nei famosi Basement Tapes ma non includendolo inizialmente in un album. L’onore spettò invece alla Band, che d’altronde aveva accompagnato Dylan proprio in quella prima registrazione del 1967. Il gruppo di Robbie Robertson incluse il brano come traccia conclusiva del suo primo album, Music from Big Pink. Un po’ alla volta la canzone cominciò a farsi conoscere e dagli anni ’70 in poi fu eseguita da una miriade di altri artisti, come Joan Baez, Joe Cocker, i Byrds, Sting, i Maroon 5 e, tradotta in italiano, Francesco De Gregori.

Verrò rilasciato

La canzone tratta della libertà più sognata e desiderata, quella a cui anela un carcerato. La traduzione del titolo è infatti “Verrò rilasciato”, espressione che viene ripetuta al termine di ogni strofa, quasi fosse un’invocazione religiosa, il ritornello di un inno gospel.

La struttura della canzone è molto semplice, formata da appena tre strofe. Nella prima si parte da alcune massime sulla natura umana – «They say ev’ry man need protection, they say ev’ry man must fall» – che introducono a un’apparente tristezza. Poi capiamo che il protagonista della canzone si trova in carcere, perché una persona accanto a lui continua a dire di essere innocente, di essere stata incastrata. Infine, nell’ultima strofa scopriamo la difficoltà di voltare pagina e di scordare la propria condizione, anche se prima o poi la libertà tornerà.

Una canzone che tratta un tema, quello carcerario, che spesso è stato affrontato da Bob Dylan. Ma una canzone che può essere interpretata anche in chiave più ampia, come d’altronde l’andamento musicale lascia suggerire. Non tanto – o non solo – una storia di ingiustizia e miseria dentro a una prigione, ma anche la storia di tutti noi, che speriamo prima o poi di uscire dal nostro carcere personale, di lasciarci alle spalle le sbarre della nostra condizione ed essere, finalmente, rilasciati.

 

Giorgio Gaber – La libertà (1973)

La più famosa canzone italiana su questo tema

Giorgio Gaber e la libertàDopo esser partiti dall’America della contestazione e di Bob Dylan facciamo una capatina in Italia. Perché dalle nostre parti, quando si parla di libertà e musica, il pensiero non può che andare a La libertà, forse il più celebre brano di Giorgio Gaber, inciso per la prima volta nel 1973.

Come probabilmente saprete, il cantautore milanese si rese protagonista, nel 1970, di una clamorosa svolta. Dopo anni di musica e conduzioni televisive nell’ambiente che oggi definiremmo mainstream, decise di lasciare tutto per dedicarsi al teatro. O, meglio, per portare le sue canzoni lontane dalla televisione e a più diretto contatto col pubblico, all’interno di spettacoli pensati appositamente per i palcoscenici di provincia. Nasceva così la forma del teatro-canzone che per qualche anno avrebbe visto Gaber fare il tutto esaurito in giro per l’Italia.

Dialogo tra un impegnato e un non so

Gli spettacoli migliori, ancora oggi capaci di scuotere le coscienze, sono quelli che vennero lanciati attorno alla metà degli anni ’70. Ovvero Dialogo tra un impegnato e un non so, Far finta di essere sani e Libertà obbligatoria, che seppero in qualche modo anche cogliere lo spirito dei tempi e dissacrarlo, dando libero sfogo alla vena comica di Gaber e di Sandro Luporini, che con lui scriveva i brani.

Proprio in Dialogo tra un impegnato e un non so comparivano alcune delle canzoni di Gaber che avrebbero lasciato un segno più duraturo sulla società italiana. Stiamo parlando di I borghesi, Lo shampoo e soprattutto La libertà, la canzone-simbolo di quegli anni.

Il pezzo presentava molte delle spinte che caratterizzavano il movimento giovanile e studentesco di quegli anni. Il desiderio di ritornare ad un rapporto più puro con la natura, l’anelito verso una libertà sessuale, la voglia di una politica che concedesse forme di partecipazione nuove. E, nel ritornello, si concludeva nel modo che tutti conosciamo: «La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone. La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione».

 

Fabrizio De André – Se ti tagliassero a pezzetti (1981)

«Signora libertà, signorina anarchia»

L'indiano, l'album del 1981 di Fabrizio De AndréIl ’68, almeno in Italia, non finì propriamente in gloria. La protesta, che pure nei primi anni ottenne qualche risultato importante sia sul piano sindacale che su quello politico, fu presto riassorbita dalla società, oppure, nei casi più estremi, trascinata nel clima violento e teso degli anni ’70. Così nei lavori di molti cantautori, passati quegli anni, si nota una sorta di ripiegamento su di sé, un superamento delle tematiche sociali o politiche dei lavori precedenti e di attenzione a cause meno universali.

Fabrizio De André era stato uno dei punti di riferimento musicali di quella stagione, anche se il movimento studentesco non gli aveva risparmiato feroci critiche (ma c’è da chiedersi chi si salvasse dal fervore quasi fanatico dei critici di quegli anni). E tra il 1978 e il 1981 fece uscire due album tra loro molto diversi, ma contrassegnati dallo stesso sentimento. Prima fu la volta di Rimini, il disco della disillusione. Poi toccò a Fabrizio De André, album noto anche come L’indiano, il disco in cui raccontò del rapimento per mano dell’Anonima Sequestri.

Il ruolo di Massimo Bubola

Ad entrambi i dischi collaborò in maniera importante il cantautore Massimo Bubola. Se ti tagliassero a pezzetti, il brano che abbiamo scelto, arriva proprio da questo secondo disco e la sua composizione – nonostante sia firmata a quattro mani da Bubola e De André – in realtà è da ascrivere in buona parte al primo. In ogni caso, il testo si adattava perfettamente alla filosofia del cantautore ligure, che da sempre si era definito anarchico.

La canzone è infatti un inno alla libertà, descritta come una ragazza di cui ci si innamora e che, nonostante sia spesso maltrattata, riesce a resistere agli strali della sorte. «Ti ho trovata lungo il fiume che suonavi una foglia di fiore – canta De André nella seconda strofa –, che cantavi parole leggere, parole d’amore».

Tra fantasia ed anarchia

Celebre, in particolare, la strofa che recita: «E adesso aspetterò domani per avere nostalgia, signora libertà, signorina fantasia. Così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza, con la tua nuvola di dubbi e di bellezza». Da notare che in origine il testo era lievemente diverso dalla versione poi incisa su disco, perché al posto di “signorina fantasia” vi figurava “signorina anarchia”.

Anche in questo caso, però, la canzone termina con una nota di tristezza. La ragazza di cui canta De André viene vista in una stazione, intrappolata in un tailleur “grigio fumo” e costretta a camminare fianco a fianco al proprio assassino. Un evidente riferimento alla strage della stazione di Bologna, avvenuta pochi mesi prima dell’incisione del brano e al clima che sembrava mettere decisamente a repentaglio la libertà, per quanto essa si fosse già incastonata in una vita assai borghese.

Ma l’ultima strofa riapre alla speranza, speranza con cui la canzone, d’altronde, s’era aperta: «Ma se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe, il regno dei ragni cucirebbe la pelle. E la luna, la luna tesserebbe i capelli e il viso. E il polline di Dio, di Dio il sorriso». Segno che per quanto la libertà possa essere maltrattata, essa riesce sempre a risorgere.

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George Michael – Freedom! ’90 (1990)

Gettarsi tutto alle spalle

George Michael sulla copertina del singolo di Freedom! '90Dopo tante canzoni impegnate, spostiamoci per un momento su un testo un po’ più leggero, che però esprime comunque un grande desiderio di libertà. Si tratta di quello di Freedom! ’90, brano inciso da George Michael per celebrare un cambio di rotta della sua carriera dopo molti anni di esposizione mediatica.

Già punto cardine degli Wham!, Michael era arrivato giovanissimo al successo, piazzando milioni di dischi ad ogni angolo del globo. Canzoni come Wake Me Up Before You Go-Go, Careless Whisper, Last Christmas e Club Tropicana lo avevano reso una pop star mondiale a poco più di vent’anni, con fan che impazzivano per i suoi pezzi ma anche per il suo aspetto fisico, così “anni ’80”.

La carriera in solitaria

Nel 1986 aveva però chiuso con la band e si era dedicato alla carriera solistica, con la pubblicazione di Faith, un album che però era sembrato perfettamente in continuità con i lavori precedenti. L’unica differenza era che a livello musicale si era lì accentuato il lato r&b, già presente anche nei dischi degli Wham! ma spesso annacquato da arrangiamenti pop o dance.

A disagio nel ruolo, George Michael, che ormai cominciava a non essere più un ragazzino, sul finire degli anni ’80 decise di dare una svolta alla propria immagine, incurante della pressione della casa discografica che gli chiedeva di cavalcare l’onda del successo. Una svolta non tanto dal punto di vista musicale o testuale – campi in cui il talento del performer inglese stava già evolvendo senza strappi – quanto in quello del look. Per il nuovo album, Listen Without Prejudice vol.1, decise infatti di non comparire in alcun videoclip.

Titolo uguale, esito diverso

La rottura col passato era simboleggiata soprattutto dal singolo Freedom! ’90. In primo luogo, si riprendeva il titolo di un celebre successo degli Wham!, capovolgendone però il senso. Nella canzone originale, infatti, il cantante piangeva per il fatto che la sua ragazza gli chiedesse maggior libertà, mentre ora era lo stesso Michael a volersi liberare (del proprio passato).

Poi, nel videoclip che fu diretto da David Fincher lo stesso Michael, come detto, non compariva, sostituito da una serie di modelle e modelli (tra cui Naomi Campbell, Linda Evangelista, Cindy Crawford e altri) che cantavano il brano al posto suo. Infine, sempre nel videoclip venivano distrutti il suo giubbotto di pelle, il juke-box e la chitarra che erano comparsi nel video del singolo-cardine del disco precedente, Faith. Insomma, un completo rinnegamento del passato, in favore di una libertà da ritrovare e urlare – anche qui come si trattasse di un gospel – nel ritornello.

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Garth Brooks – We Shall Be Free (1992)

Un mondo migliore

We Shall Be Free, bella canzone country sulla libertà di Garth BrooksIn genere è piuttosto facile trovare canzoni che parlano di libertà quando ci si mette ad esplorare il repertorio della musica folk, un genere da sempre attento ai diritti civili e ai temi sociali. Molto più difficile è farlo quando invece ci si addentra in tipi di musica più tradizionalisti e conservatori, come ad esempio il country.

Come probabilmente saprete, questo genere è infatti tipico degli stati meridionali degli USA e, anche se negli ultimi anni è stato rinnovato e si è mescolato con influenze rock e pop, ha ancora una sua solida base legata ai vecchi valori. Così le canzoni parlano sovente d’amore o della bella terra del sud, ma raramente si addentrano in tematiche scabrose o considerate “liberal”.

Le polemiche

Per questo, quando nel 1992 Garth Brooks incise We Shall Be Free, nacque nell’ambiente qualche polemica. Brooks era all’apice della sua carriera, essendosi dimostrato in quegli stessi anni il primo cantante country in grado di soppiantare i divi del pop in classifica. Vendeva milioni di dischi e i suoi concerti facevano il tutto esaurito nel paese, e specialmente negli stati del sud. I temi erano i soliti: l’amore, il duro lavoro, la famiglia, la strada.

Ma proprio nel 1992 Brooks si era esibito a Los Angeles durante i premi dell’Academy of Country Music, e tornando a casa sua, in Oklahoma, si era imbattuto nella rivolta causata dall’assoluzione dei responsabili dell’aggressione a Rodney King. Molto scosso da quegli eventi, si mise a scrivere assieme alla collega Stephanie Davis una canzone di speranza, che parlasse di un mondo migliore in cui tutti in futuro potessero essere davvero liberi.

Libertà di parola, di pensiero, di religione, sessuale

I temi erano completamente inediti per una canzone country, perché Brooks non chiedeva una generica libertà, ma denunciava i limiti alla libertà di parola, il razzismo, i disastri ambientali, l’intolleranza verso gli omosessuali. Tutti argomenti che al sud non erano abituati a sentire nelle canzoni. È anche per questo motivo che, secondo i critici, We Shall Be Free fu l’unico singolo di Brooks di quegli anni a non entrare nella top ten della musica country, a causa dell’ostracismo di molte emittenti radiofoniche.

Il cantante country si è più volte espresso sulla canzone, che continua ancora oggi ad essere eseguita, anche con un certo successo, nei suoi concerti. E ha ogni volta ribadito l’intenzione di non voler offendere la sensibilità di nessuno, ma di sentirsi comunque molto orgoglioso dei temi affrontati, nonostante il brano andasse – almeno nel suo ambiente professionale – controcorrente.

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Fonte: https://www.cinquecosebelle.it/cinque-belle-canzoni-sulla-liberta/

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